La riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici comporta conseguenze che sono in contraddizione con gli intenti stessi della politica di consolidamento delle finanze pubbliche. Vediamo perché, partendo da lontano.
L’origine della ricchezza di un Paese proviene dal lavoro, così afferma la teoria del valore-lavoro sviluppata dal filosofo ed economista scozzese del XVIII secolo Adam Smith, fra i primi autori di quella corrente di pensiero liberale giunta fino a noi, non senza deformazioni, incomprensioni e pure perfezionamenti. Il lavoro umano quindi come fonte originaria e creatrice della ricchezza economica, equivalente alla produzione di beni e, aggiungiamo, di servizi.
La creazione del valore necessita però anche, ed è la teoria del valore-utilità degli economisti neoclassici a ricordarcelo, di un riconoscimento terzo, l’utilità appunto riconosciuta dal consumatore dei beni e servizi prodotti da quell’attività lavorativa il cui valore viene così validato in una relazione sociale. Detto altrimenti, la ricchezza va prodotta e riconosciuta anche come story. Una prova al contrario, in negativo, sono le difficoltà nelle quali incorre un’azienda che produce ma che non riesce a vendere i suoi prodotti: dovrà sopportare il costo del valore generato in quanto manca il riconoscimento dell’utilità di questi stessi prodotti da parte di un soggetto terzo.
Ribadire il ruolo del lavoro e la dimensione sociale del valore è fondamentale per comprendere le implicazioni della volontà del governo cantonale, intrappolato in una politica di riequilibrio forzato dei conti, di non riconoscere da una parte un compenso salariale ai dipendenti pubblici a seguito dell’aumento generale dei prezzi, e allo stesso tempo di incrementare il prelievo sui loro stipendi, di fatto una tassa prelevata sui suoi collaboratori (proprio quell’aumento di tasse e imposte che una maggioranza politica vuole evitare in tutti i modi).
In sostanza, una politica di riduzione reale del potere d’acquisto, a carico dei dipendenti pubblici ma con risvolti anche sul servizio pubblico da essi realizzato e pure sul valore che a questo servizio si intende attribuire. I dipendenti pubblici sono, infatti, lavoratori a tutti gli effetti, produttori di beni e servizi pubblici, creatori quindi di un valore economico il cui riconoscimento sociale viene messo in discussione proprio da queste due misure. Una messa in discussione prettamente politica, ma dalle ampie conseguenze sociali ed economiche, che di fatto comporta una svalutazione del lavoro da essi svolto. Detto crudamente: “Vi paghiamo meno, perché consideriamo essere di minore valore il risultato del vostro lavoro”, dimenticando che quanto prodotto è per lo più un servizio pubblico, come la formazione, la giustizia e la sicurezza, a favore dell’intera popolazione e, paradossalmente, a favore anche del tessuto economico che la politica di riequilibrio delle finanze pubbliche vorrebbe sostenere.
Va poi ricordato l’apporto della teoria keynesiana alla comprensione del nesso fra la remunerazione monetaria del lavoro (il versamento dello stipendio) e la creazione del potere d’acquisto (la formazione del reddito), destinato a essere speso, in un identico moto in due fasi di creazione (produzione) e distruzione (consumo) del valore economico. In quest’ottica ridurre gli stipendi reali comporta la riduzione della creazione di valore, contribuendo così, assieme alle altre misure di contenimento della spesa pubblica, a rallentare la crescita economica e le implicazioni che ciò comporta anche per le finanze pubbliche, in contraddizione con gli obiettivi finali della stessa politica di riequilibrio finanziario.
Conseguenze e contraddizioni ottenute con un sol gesto, da rivedere risalendo all’origine della questione onde evitare azioni fuorvianti rispetto agli obiettivi generali della politica economica cantonale.
Questo articolo è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il weblog naufraghi.ch